Perché gli algoritmi dei social sembrano sapere cosa mi piace?

Non tutto "è su misura" (depositphotos.com) - www.systemscue.it
I social “sanno” sempre “tutto”: algoritmi di apprendimento automatico analizzano i “mi piace”, il tempo di visualizzazione e le interazioni.
Scorrere il feed dei social network oggi è paragonabile a sfogliare una rivista creata su misura per noi: ogni post, video o immagine sembra toccare esattamente ciò che ci interessa. Ma si tratta davvero di coincidenza o c’è di più?
Secondo The Dare Company, la soluzione si trova negli algoritmi che governano ogni aspetto della nostra esperienza online. Sistemi automatizzati che osservano i nostri comportamenti: dai “mi piace” ai commenti, dal tempo trascorso su un video alle storie che preferiamo, per costruire un profilo su di noi.
In termini semplici, gli algoritmi funzionano come bibliotecari invisibili nel mondo digitale. Registrano tutto ciò con cui ci relazioniamo e, attraverso modelli di apprendimento automatico e tecniche come il collaborative filtering, scelgono i contenuti che giudicano più pertinenti per noi.
Qual è l’intento? Mantenere gli utenti coinvolti il più a lungo possibile, poiché ogni scroll e clic rappresenta tempo trascorso sulla piattaforma e, di conseguenza, possibili introiti pubblicitari.
“Ti piace? Lo sapevamo!”
The Dare Company descrive l’algoritmo dei social media come un meccanismo automatico che seleziona i contenuti in base al nostro comportamento: tutto ciò che mettiamo “mi piace”, commentiamo, condividiamo o semplicemente osserviamo con attenzione. Ogni piattaforma ha le proprie varianti, ma tutte mirano allo stesso obiettivo: offrirci contenuti intriganti personalizzati per ognuno di noi. Secondo Sprout Social, gli algoritmi agiscono come bibliotecari digitali: gestiscono enormi volumi di contenuti per evidenziare quelli che potrebbero attrarre maggiormente la nostra attenzione, migliorando la nostra esperienza e mantenendoci collegati più a lungo.
Utilizzano indicatori come il tempo di visualizzazione, clic, “mi piace” e persino le interazioni negative per perfezionare continuamente le loro proposte. A tal proposito un potente strumento a disposizione degli algoritmi è il collaborative filtering, un metodo che esamina le preferenze di utenti simili tra loro per suggerirci nuovi contenuti, utilizzando informazioni aggregate di gruppi di utenti per identificare ciò che potremmo gradire, anche se non lo abbiamo mai visto prima.

Eco e “personalizzazione”
Il rovescio della medaglia di questa personalizzazione è la cosiddetta “filter bubble”, fenomeno ampiamente osservato in Social Media Analysis e bolla algoritmica che restringe il nostro accesso a contenuti diversi, rinforzando opinioni già formate; secondo quanto riportato dal New Yorker, questo fenomeno può trasformarsi in echo chamber, dove idee simili si amplificano senza alcun confronto esterno, contribuendo alla polarizzazione sociale e cognitiva. Secondo il documentario The Social Dilemma, i social creano un sistema in cui l’utente diventa il prodotto: la piattaforma massimizza il coinvolgimento, la crescita e i ricavi pubblicitari sfruttando la nostra interazione costante.
Inoltre, test condotti da testate come il Guardian con account “vuoti” su Facebook e Instagram hanno dimostrato che in pochi mesi, senza alcuna interazione, gli algoritmi hanno iniziato a mostrare contenuti sessisti e misogini, evidenziando quanto siano questi sistemi inesorabilmente proattivi, anche senza alcun input da parte dell’utente.